Meglio giornalisti o i copywriter (cioè scrittori pubblicitari)? Una querelle vecchia come la carta stampata. E il dibattito non è affatto scontato come vedremo.
Il giornalismo basa le sue regole deontologiche sulla precisione, l’affidabilità, la descrizione puntuale della realtà. In merito è esplicativo l’articolo 2 (Diritti e doveri) della legge professionale 69/1963 che recita: “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”. Altri importantissimi precetti deontologici sono consultabili qui:
Fino agli anni ‘50 i redattori pubblicitari erano giornalisti che si impegnavano nella scrittura di testi pubblicitari. Non vi era infatti una specifica figura che si occupasse della scrittura delle cosiddette reclame. Fin dall’inizio furono visti abbastanza male perché sembrava volessero convincere i lettori di qualcosa, normalmente invogliando all’acquisto di un prodotto o servizio. Ma anche la professione del pubblicitario oggi si regge su regole precise. In particolare non si possono dire inesattezze, perché in gioco spesso ci sono dei prodotti il cui valore è elevato, sia per quanto riguarda l’idealizzazione che la produzione.
Le due figure quindi hanno elementi in comune, ma si trovano in numero maggiore delle differenze.
Il giornalista, o il content writer, non deve sponsorizzare nulla (o almeno si spera). I copywriter invece, soprattutto nella frenetica comunicazione subentrata con la rivoluzione digitale, devono essere più attenti a carpire le innovazioni del linguaggio e le tendenze della società, anticipandole e fornendo una comunicazione accattivante per il prodotto. Il linguaggio infatti muta in continuazione, come avevamo analizzato qui: .
Il copywriter deve evidentemente giocare con le leve psicologiche (psycological triggers), analizzate già da Joe Sugarman, indiscusso maestro del copywriting persuasivo. Queste possono essere riassunte in:
- concentrarsi sul lettore e su i suoi bisogni
- stimolare la visualizzazione (le immagini vengono elaborate dal cervello 60.000 volte più velocemente del testo)
- creare curiosità
- indurre a pensare alla scarsità di tempo per l’acquisto
- precisione (il lettore deve potersi fidare)
- raccontare una storia (lo storytelling è più facile da ricordare e crea empatia).
Insomma il pubblicitario cerca di trovare una connessione empatica, orientata dalle strategie di marketing, con il lettore o ‘consumatore’ finale. Il giornalista invece fornisce al lettore informazioni chiare, attendibili e senza una finalità commerciale, anche se può, inevitabilmente, far trasparire la sua opinione.